Codino mai “umano, troppo umano”
Roberto Baggio compie 55 anni e, come da mia tradizione, vi rendo partecipi di alcune riflessioni. Pensieri liberi e sempre diversi per anime semplici e complesse, che non s’appagano della superficie, ma cercano segni e simboli per capire il reale. Approderemo fino a Nietzsche per far gli auguri al nostro caro Roby
Qualche settimana fa mi sono imbattuta casualmente in un libricino dal titolo Sognavo il codino di Baggio (Prospettivaeditrice). L’autore, Marco Zautzik, usa come pretesto il codino del nostro Roby per raccontare del suo periodo di gioventù. Questo mi ha fatto tornare alla mente di quante volte vari baggisti (baggiani/baggistici/baggiofili o come preferite) mi hanno confessato di aver avuto il codino o di desiderare di farlo durante gli anni ’90, un po’ come Zautzik: “Io sognavo il codino di Baggio. Ecco mi limitavo a sognarlo. E mi incantavo a vedere i bambini con il codino come lui.” Perché quel codino fu così emblematico per un’intera generazione? Leggiamo di nuovo tra le pagine: “Il codino, ancor prima dell’orecchino, per me verso gli undici/dodici anni era il massimo concetto di trasgressione che potessi immaginare e chi lo aveva era un mito da emulare. Un ribelle.” Il primo moto che scattava nella testa come racconta molto bene Marco è quello della ribellione verso un’uniformità e piattume generale. Roberto è un grande classico per i romantici del calcio, ma anche uno dei primi a rompere gli schemi, ad essere moderno. “Quando Baggio smise di giocare, che tristezza sportiva. Pari a quando si tagliò tutti i capelli corti, all’epoca in cui giocava col Bologna; menomale che in quest’ultimo caso, essendo ormai io cresciuto, fu un boccone meno amaro da digerire”. Proseguendo nella lettura penso che ci sono delle precise fasi nella vita e carriera di Baggio scandite dal look: il mondiale da protagonista negli Usa dove compaiono le simpatiche treccine (“L’idea è nata per gioco. Stavamo in hotel in America e c’era una cameriera che aveva delle treccine stupende. Mi ricordo che quel giorno, parlando con lei per farle i complimenti, mi disse: ‘Perché non te li fai anche te?’. E dopo due ore era lì a farmele. Ovviamente non potevo tenere le treccine libere durante le partite e quindi mi è venuta in mente l’idea di legarli con un codino” ha confessato Baggio in varie interviste), l’interregno a Bologna dove decide di toglierlo, gli ultimi anni a Brescia dove ricompare, poi la nuova vita post calcio dove viene fatto sparire, per poi tornare in auge lo scorso anno per l’uscita del film su Netflix “Il divin codino”. Per me il codino di Baggio più che alla ribellione fa pensare al concetto di libertà e scoperta.
Nello stesso anno del mondiale americano mi innamorai infatti contemporaneamente, ma in modo differente, di un filosofo, che ebbe poi una parte fondamentale nelle mie scelte di vita e non solo perché, più banalmente, mi sarei laureata in Filosofia. Il primo libro che mi fece conoscere Eliana, un’amica d’infanzia, fu Umano, troppo Umano di Friedrich W. Nietzsche. Più che il titolo mi attirò il sottotitolo “Un libro per spiriti liberi” ed il quadro di René Magritte, L’arte di vivere, in copertina. “Umano, troppo umano” per Nietzsche è chi finge per convenzione, è egoista e mistificatore della realtà pur sapendo quanto la nobiltà d’animo e l’altruismo possano aprire più ampie prospettive di gloria. Il codino di Baggio e, quindi per sineddoche l’uomo, non può essere che divino, perché si eleva al di sopra dei bassifondi umani e non conosce il concetto di vergogna. Nell’aforisma 344 de Il viandante e la sua ombra contenuto in questo meraviglioso libro dedicato alla memoria di Voltaire il filosofo tedesco scrive: “Non si deve voler vincere quando si ha la prospettiva di superare l’avversario solo per un capello. La buona vittoria deve rallegrare il vinto, deve avere qualcosa di divino che risparmi la vergogna.” Se leggiamo queste parole viene completamente ribaltata la prospettiva del famoso calcio di rigore sbagliato ad Usa ‘94. Roby non avrebbe mai potuto vincere ai rigori contro il Brasile dopo una finale così brutta, perché non sarebbe stata una vittoria onorevole. Il suo errore dal dischetto, divenuto emblematico almeno quanto il simpatico codino, lo ha reso umano, ma non “umano, troppo umano”. Nella sua umanità, in quanto fallibilità, vi è anche la sua solitudine eroica. Nietzsche ci spiega nell’aforisma 337 il significato di eroismo in una maniera talmente semplice, precisa e sintetica che non l’ho più ritrovata così in altri scrittori: “L’eroismo consiste nel fare una cosa grande (o nel non fare, in maniera grande, qualcosa), senza sentirsi in competizione con altri, davanti ad altri. L’eroe porta sempre con sé il deserto e la sacra, invalicabile zona di confine, ovunque egli vada.” Baggio è divenuto l’eroe nazionale a prescindere da vittorie e sconfitte perché il vero eroe è colui che sfida sempre e solo se stesso, che avanza solo, ammantato d’ una speciale aura di grandezza che lo fa diventare punto di riferimento, umanamente vicino, ma anni luce lontanissimo: “da ciò che vuoi conoscere e misurare devi prendere congedo, almeno per un certo tempo. Solo quando avrai lasciato la città potrai vedere quanto alte si ergono le sue torri sopra le case.”* Dopo il suo ritiro infatti, col pathos della distanza abbiamo imparato ad apprezzare ancora di più il calciatore, ma soprattutto l’uomo Baggio che, con quel tocco unico, umanamente divino, ha saputo arrivare al cuore di milioni di persone: vittoria eroica, empatica e, quindi, eterna.
Erika Eramo
Articolo su Articolo su passionedelcalcio.it